back
teoria
attualità
home
|
LE FORME DI APPROPRIAZIONE 1.0
Conseguenza del materialismo storico è che lo sviluppo delle forze produttive, quindi del lavoro sociale in quanto divisione del lavoro, porti necessariamente ad una socializzazione crescente delle strutture sociali, cioè alla piena realizzazione della società come comunità. Questo movimento reale trova corrispondenza a livello sovrastrutturale nel pensiero economico di ogni epoca, in particolare in quello della società borghese in quanto fase culminante di tale sviluppo. Per questo essa prelude necessariamente al comunismo, quindi in parte lo anticipa. La sua logica interna e le contraddizioni che ne seguono, sia a livello concettuale che pratico, la spingono verso tale approdo. Certamente non sono le idee e le loro contraddizioni il motore della storia, ma sono tuttavia la rappresentazione ideologica, quindi distorta ma anche allusiva, delle forze reali delle storia, cioè quelle dell’attività pratica umana, la cui forma più alta è il lavoro sociale. E’ possibile seguire i due sviluppi, quello del movimento reale e quello ideologico, come processi che si illuminano a vicenda. Specialmente chiarificatori sono i concetti fondamentali dell’ideologia borghese in campo economico, in particolare il concetto di proprietà, per il quale si può affermare che lo sviluppo delle sue contraddizioni va nella direzione del comunismo.
1. Legge del valore e legge del lavoro
Consideriamo il rapporto di produzione nei due casi canonici: società mercantile semplice e società capitalistica. In entrambi il rapporto di produzione si presenta in forma duale. Le due società differiscono per diversi aspetti, ma il rapporto appare in entrambe nella forma giuridica di rapporto tra proprietari indipendenti. Come viene realizzata questa forma? Innanzitutto il rapporto viene espresso attraverso due forme diverse di proprietà: la proprietà può essere creata nell’atto della produzione costituendo la proprietà primaria; oppure si ha un trasferimento di proprietà che ha luogo nella circolazione, costituendo la proprietà secondaria. Nella società mercantile semplice la produzione è opera dei singoli produttori indipendenti, proprietari dei fattori di produzione, in quanto il lavoro è il loro proprio lavoro, i mezzi di produzione sono prodotti da loro stessi o acquistati con i prodotti del loro lavoro. Quindi il singolo produttore è in quanto produttore proprietario di tutto il prodotto, poiché deriva direttamente o indirettamente dal suo lavoro. Pertanto il produttore è riconosciuto come proprietario del prodotto per il fatto che ne è l’unico creatore ed è l’unico proprietario dei mezzi di produzione. Di conseguenza l’individuo è proprietario in quanto è produttore. Pertanto diciamo che vale la legge del lavoro. Ma nella realizzazione della legge del lavoro interviene un secondo modo di appropriazione, lo scambio, in cui l’appropriazione è regolata dalla legge del valore, per la quale una proprietà può essere alienata solo a condizione che il proprietario acquisisca un’altra proprietà equivalente alla prima in termini di lavoro astratto e socialmente necessario. I produttori entrano in rapporto come tali solo nella circolazione che sostanzialmente conferisce al lavoro totale della società la forma di una particolare divisione del lavoro, quella dei mestieri, non organizzata ma effettiva, attribuendo al lavoro carattere sociale. Infatti ogni produttore attende ad un singolo processo di lavoro che si conclude nella creazione di un prodotto finale pronto all’uso, che viene scambiato per il consumo finale. Nel loro insieme questi processi di lavoro costituiscono segmenti del lavoro totale della società, che così viene strutturato sulla base di una specifica divisione del lavoro. Si tratta di una divisione del lavoro parziale, intermedia tra l’autarchia dell’economia famigliare, in cui tendenzialmente tutto viene prodotto all’interno e gli scambi riguardano solo le eventuali eccedenze, e il capitalismo che porta a compimento il processo sviluppando la divisione del lavoro fino ai suoi limiti estremi.
Anche il rapporto di produzione capitalistico si presenta in forma duale: da una parte nella produzione come realizzazione del lavoro sociale nella forma della divisione del lavoro all’interno di ogni singolo segmento del processo di lavoro; dall’altra nella circolazione, che realizza una ridistribuzione del prodotto totale fra le singole imprese per rinnovare il ciclo. Ma nel capitalismo il rapporto di produzione subisce cambiamenti essenziali. La produzione crea la proprietà ma solo quella del capitalista che ha diritto all’intero prodotto, mentre i produttori ne sono totalmente espropriati. Inoltre i produttori sono indipendenti solo formalmente in quanto entrano in un nuovo livello di divisione del lavoro che si realizza in forma coercitiva nella singola unità produttiva, cioè nel singolo segmento produttivo, realizzando la divisione del lavoro manifatturiera. Anche qui dalla circolazione sorge la proprietà secondaria, ma a differenza della società mercantile semplice, la forza lavoro, che si materializza nei mezzi di sostentamento, assume il carattere di fattore di produzione, cioè si reifica e diviene merce, per cui il plusprodotto può essere reinvestito per rinnovare il ciclo. Infine i produttori entrano in rapporto fra di loro solo nella produzione e solo indirettamente, tramite il capitalista, cioè non hanno rapporti di scambio ma si rapportano solo nella divisione del lavoro istituita dal capitalista.
Nella produzione mercantile semplice, cioè nell’artigianato e nella piccola proprietà fondiaria, le due leggi sono in armonia. La prima legge crea la proprietà, la seconda la trasforma cambiandone l’oggetto, in quanto permette al proprietario di mutare il bene prodotto in valore d’uso specifico per il proprio consumo. Lo stesso ruolo svolgono le due leggi nel capitalismo, ma con il suo sviluppo presto esse entrano in conflitto. Essendo esclusa la produzione per l’autoconsumo, i fattori di produzione si trovano tutti sul mercato, per cui il capitalista li può acquisire come proprietà secondaria. Ciò determina una terza forma di appropriazione, cioè la proprietà dei fattori di produzione si autonomizza travalicando lo scambio e diviene condizione sufficiente per l’appropriazione del prodotto diventando fonte di proprietà primaria. Allo sviluppo della portata della legge del valore corrisponde il venir meno della legge del lavoro. Infatti il produttore stesso viene posto come merce, cioè viene reificato come forza lavoro e ridotto a semplice fattore di produzione, ciò che permette di concentrare nelle mani di un unico proprietario tutti i fattori di produzione su scala illimitata. Ma l’acquisizione dei fattori mediante scambio permette l’alienazione di tutto il prodotto. In tal modo il principio di appropriazione attraverso il lavoro viene sostituito da quello dell’appropriazione attraverso la sola proprietà dei fattori, separata dalla produzione ad opera del proprietario (che può esserci, e allora è considerata lavoro salariato, ma di norma è assente). Cioè la legge del lavoro è sostituita dalla legge della proprietà.
Quindi il produttore non è più proprietario perché produttore ma è produttore perché proprietario. Questa inversione viene agevolata quando il valore astratto si oggettiva nella forma di denaro e la ricchezza in tale forma si concentra nelle mani del capitalista, incontrandosi infine con l’indigenza del produttore, come tale possessore unicamente della propria forza lavoro isolata. Essendo costretto a vendere per comprare, deve vendere la sua unica proprietà, la capacità di lavoro, e insieme ad essa il diritto di appropriazione sul prodotto. Il fatto che nella definizione dei diritti sul prodotto l’accento venga posto sulla proprietà dei fattori in quanto proprietà secondaria, cioè proprietà di un valore, e non come proprietà primaria, cioè come proprietà di un lavoro, è conseguenza del fatto che nel capitalismo questo computo renderebbe visibile il fatto che alla base di questa abnorme concentrazione di valore in poche mani vi sono permute inique, cioè permute in cui una delle parti non riceve l’equivalente di quanto ha venduto. Si dà alla proprietà un valore assoluto senza risalire a ciò che fonda questo diritto, il lavoro del proprietario.
In questo slittamento della legge del valore da criterio di ridistribuzione di valori d’uso a fonte della proprietà primaria appare fondamentale il ruolo del denaro. Dal punto di vista del produttore ciò che accade è che il denaro può sostituirsi al produttore materiale, alla vera ed unica fonte del prodotto, e personificarsi nel capitalista, che può così divenire proprietario di tutti i fattori e perciò di tutto il prodotto. Dal punto di vista del capitalista, è il capitalista stesso che attraverso il capitale monetario figura come il produttore reale, cioè diviene il demiurgo del processo di produzione come se vi operasse personalmente ed esclusivamente. Per cui il capitalista ricrea surrettiziamente l’unità produttiva elementare, quella del singolo produttore indipendente, fondamento della società mercantile semplice, a sua volta modello elementare della società borghese. La ricostituzione di tale modello non è solo ideologica perché in questo caso la società ha già assimilato l’attribuzione della proprietà esclusiva su tutto il prodotto al produttore. E il capitalista si pone proprio come unico produttore indipendente, proprietario dei fattori, e come tale proprietario di tutto il prodotto. Sostanzialmente il capitalista identifica il rapporto di produzione capitalistico con quello mercantile semplice in modo che per lui appaia lecito acquisire un diritto esclusivo sul prodotto e per il produttore reale essere totalmente privato di esso, salvo vederlo ritornare in suo possesso, ma solo in parte, come salario, e solo nella misura necessaria alla sua riproduzione giornaliera e generazionale. Ma tale recupero ha luogo a posteriori, dopo un braccio di ferro contrattuale e sovente politico, dopo esserne integralmente espropriato. Quindi diviene operante una nuova legge di appropriazione, che nega quella del lavoro.
Ciò è quanto avviene nella prima metamorfosi del capitale monetario, nella quale esso, acquistando i fattori della produzione, da denaro si trasforma in merce. Questa trasfigurazione del denaro è possibile solo sulla base della legge del valore. Essa rendendo omogenei i fattori di produzione permette di quantificarli e quindi di confrontarli tra loro e con il prodotto, e pertanto conduce alla definizione del plusprodotto, la quantità di prodotto che eccede i costi di produzione, cioè il valore dei fattori di produzione. Inoltre il denaro agevola la realizzazione del ciclo del capitale, cioè la sua trasformazione da denaro in merce e poi in capitale produttivo, destinato ad essere consumato produttivamente. Ciò avviene nella seconda metamorfosi dove il capitale merce diviene capitale produttivo, cioè valore d’uso consumato produttivamente nel processo di lavoro. In questa fase del ciclo del capitale si realizza la conseguenza più importante della negazione della legge del lavoro. Infatti qui insieme al prodotto viene realizzato il plusprodotto, e immediatamente sottratto al produttore, negando ogni sua pretesa su di esso. Poi il prodotto ripercorre a ritroso le due precedenti metamorfosi, dove è nuovamente trasformato prima in merce, poi in denaro, ma il produttore resta escluso da questi momenti, che sono fondamentalmente di pertinenza del capitalista, poiché gli è solo consentito di ricomprare per il proprio consumo finale una parte di ciò che ha prodotto.
2. La legge di proporzionalità
La legge di appropriazione della totalità del prodotto, quindi del plusprodotto, sulla base della proprietà dei fattori contraddice la legge del lavoro ma nell’impresa capitalista ciò non appare. Qui i soggetti che partecipano al processo produttivo sono due, capitale e forza lavoro, e appaiono non come proprietari di fattori della produzione che stanno sullo stesso piano ma come classi delle quali la prima impone alla seconda un rapporto di produzione giugulatorio, nel quale il capitalista si appropria di tutto il prodotto. Ciò in quanto il salariato è costretto a vendere la sua unica proprietà, il lavoro, perdendo così il diritto al prodotto. Ma ciò non risulta evidente, in quanto il rapporto di produzione viene stabilito consensualmente sul piano giuridico in forma contrattuale da contraenti formalmente indipendenti. Secondo le regole capitaliste il capitale accaparrandosi la proprietà dei fattori acquistandoli sul mercato, acquista con essi anche il diritto a tutto il prodotto, dal quale, detratti i costi di produzione, cioè salari anticipati e ammortamento dei mezzi di produzione, ottiene il plusprodotto. Tutto sembra in regola: introducendo i concetti di forza lavoro e mezzi di produzione gli scambi sono tra equivalenti; i fattori sono reintegrati al loro valore, ma il risultato è che tutto il plusprodotto resta nelle mani del capitale. I rapporti si chiariscono quando la proprietà è frazionata, in quanto i diversi contributi alla produzione sono quantificabili e confrontabili fra loro. Qui la legge di appropriazione del plusprodotto è che la quota spettante ad ogni partecipante al processo produttivo è proporzionale al valore del contributo, cioè la ripartizione del plusprodotto avviene in base ad una legge di proporzionalità. Questa è una generalizzazione della legge della proprietà, che allude ad una nuova forma di proprietà, quella della comunità di lavoro, ma è una generalizzazione incompleta. Infatti il contributo del lavoro non viene considerato come un contributo al pari degli altri ma come un costo, cioè come un fattore di produzione che deve essere acquistato.
Ma sono possibili altri modi di ripartizione del plusprodotto altrettanto ‘equi’.Consideriamo il caso in cui la legge di proporzionalità sia applicata come estensione della legge del lavoro, cioè distribuendo il plusprodotto in ragione del contributo computato in lavoro. In primo luogo va osservato che il principio di proporzionalità è coerente con le due leggi, poiché quella del valore è indispensabile quanto quella del lavoro per la sua applicazione. Infatti ciò che importa della legge del valore è che essa è necessaria al fine di confrontare i diversi lavori nella divisione del lavoro. Solo sulla sua base è possibile applicare la legge di proporzionalità, quindi la legge del lavoro, e determinare la ripartizione del prodotto. Se l’applicazione della legge del valore va ristretta solo al confronto dei lavori, la legge del lavoro va applicata in tutta la sua estensione, cioè per ogni lavoro produttivo, quindi per ogni consumo produttivo, sia esso consumo di lavoro soggettivo che di lavoro oggettivato, cioè di lavoro vivo e lavoro morto, quindi lavoro immediato e lavoro pregresso materializzato nei mezzi di produzione.
Il principio di proporzionalità nasce dal capitalismo maturo, poiché rispecchia il principio in base al quale vengono distribuiti i dividendi in una società per azioni, cioè in proporzione al capitale versato. Infatti in tale ambito il suo carattere di classe è evidente in quanto viene applicato solo al capitale monetario, non a quello produttivo. Cioè solo se i contributi dei partecipanti al capitale sono conferiti nella forma di denaro. Infatti poiché non appena gli stessi contributi appaiono concretamente come lavoro, cioè quando si considera il contributo materiale apportato al processo produttivo, quello dei lavoratori, cioè il lavoro immediato, questo viene escluso dalla ripartizione del plusprodotto, che, detratte le quote di capitale anticipato, cioè l’ammortamento e i salari, come reintegrazione del capitale consumato, viene di fatto ripartito esclusivamente tra coloro che partecipano al processo conferendogli i mezzi di produzione. Questo è giustificato col fatto che il capitale monetario ha acquistato anche il lavoro, e come proprietario di questo acquisisce anche il suo diritto al plusprodotto. Se invece si applica la proporzionalità commisurando il contributo alla produzione in termini di lavoro complessivo – quindi quello dei lavoratori come lavoro immediato, quello contenuto nei mezzi di produzione come lavoro pregresso – il principio di proporzionalità implica una partecipazione dei produttori al plusprodotto, come conseguenza della legge del lavoro. Quindi la proporzionalità applicata al capitale monetario è in diretta opposizione alla legge del lavoro mentre è compatibile con la legge del valore, di cui peraltro è una conseguenza.
Ma occorre considerare il rapporto tra la legge di proporzionalità e quelle del valore e del lavoro. Innanzitutto la questione non è la proprietà, che è solo un fatto giuridico, ma la sua fonte materiale, il lavoro. Questa esiste solo se è stata acquisita con il lavoro del proprietario. Ciò può verificarsi in due modi: o il fattore è stato prodotto dal proprietario con il suo lavoro immediato, o è stato acquisito per mezzo di un suo lavoro pregresso, quindi per mezzo di uno scambio, ma può anche trattarsi di una successione di scambi a partire da una proprietà primaria. Quello che importa è che la proprietà dei fattori sia proprietà primaria o proprietà derivata da essa a partire da permute tra equivalenti, cioè fra merci il cui contenuto di lavoro effettivamente prestato sia uguale. Questo avviene normalmente, salvo violazioni della legge del valore. Queste possono essere o reati contro la proprietà o l’utilizzazione di lavoro salariato. Il risultato cui si vuole pervenire computando la partecipazione alla costituzione dei fattori di produzione in termini di lavoro, immediato o pregresso, del proprietario finale, è che la proprietà dei fattori si identifichi con il lavoro dei proprietari. Questa condizione permette una ripartizione del prodotto come estensione della legge del lavoro alla produzione collettiva, cioè alla divisione del lavoro. Tale generalizzazione è possibile se si ammette che l’acquirente di una merce subentri in tutti i diritti su di essa che appartengono al venditore, che sono gli stessi cui rinuncia l’acquirente sulla merce da lui ceduta. D’altra parte ciò è necessario perché si realizzi lo scambio, altrimenti si ricadrebbe nei casi di illecito. La compravendita di forza lavoro è uno di questi, dove l’abuso non è tanto il fatto che la proprietà del prodotto sia attribuita totalmente alla proprietà dei fattori, quanto al fatto che è una proprietà in linea di principio improduttiva, cioè separata dal lavoro del proprietario. Se la legge del valore resta valida nei suoi limiti proprietà e legge del lavoro si identificano e la legge del lavoro diviene una base per la ripartizione razionale del prodotto. La legge di proporzionalità ha come finalità quella di abolire il fatto che la proprietà dei fattori si impossessi del prodotto come se il capitalista avesse lavorato personalmente alla loro produzione. L’altro abuso è che il lavoro salariato viene escluso dalla ripartizione del plusprodotto. Abolendo questi due aspetti del rapporto di produzione l'impresa capitalista viene trasformata in una associazione di produttori, in cui è possibile applicare un modo di produzione fondato sull’autogestione.
Nella realtà capitalista quale delle due applicazioni della legge di proporzionalità, quella capitalista o quella autogestionaria, sia attuata lo decide chi è in grado di anticipare il capitale. Ma questa è una questione di potere contrattuale, estranea alla coerenza interna delle leggi. Infatti il passaggio da l’uno all’altro fra i due modi di applicazione della proporzionalità è la sostituzione dei fattori di produzione in quanto valore d’uso, con il capitale monetario in quanto valore, sostituzione possibile poiché quest’ultimo è sempre trasformabile in capitale produttivo in quanto i fattori sono reperibili nel mercato, soprattutto la forza lavoro. Questa possibilità è definita dal modo di produzione vigente, cioè definita politicamente e giuridicamente. D’altro canto, se i proprietari dei fattori prima dell’alienazione dei fattori al capitale monetario si associassero sulla base della parità di diritti sul prodotto, la ripartizione del plusprodotto secondo la proporzionalità seguirebbe come un fatto naturale. Sono le condizioni storiche che impediscono che ciò accada e che sia invece il capitale monetario a riunire ed organizzare i fattori e quindi ad impadronirsi di tutto il prodotto. Ciò che appare alla superficie semplicemente come un libero atto di compravendita tra proprietari indipendenti, in realtà è il mascheramento di un rapporto di potere. La possibilità per il denaro di acquistare i fattori di produzione dipende dal rapporto di produzione, che è in pari tempo tecnico e politico, cioè un rapporto di dominio che appare come rapporto tecnico. I due modi di applicazione della legge di proporzionalità e se sia applicato l’uno o l’altro, sono conseguenza del rapporto di produzione. La questione è tutta nel fatto che il lavoro è oggettivamente un fattore di produzione per il capitalista , cioè una merce reperibile sul mercato, e il capitalista lo considera tale soggettivamente, ma non lo è per il produttore che pur essendone il possessore legittimo non può conferirlo all’impresa come investimento. Questa impossibilità non è un divieto, ma deriva dal fatto che il produttore non può aspettare che il suo investimento si valorizzi, in quanto non possiede una riserva. D’altra parte se possedesse tale riserva la investirebbe come capitale e non sarebbe più un proletario. Quindi è costretto a vendere la sua unica proprietà al capitalista, esattamente come il contadino è perennemente costretto a vendere il raccolto all’usuraio prima della mietitura. In effetti la proprietà dei fattori è subordinata all’effettivo possesso, cioè al fatto che siano effettivamente utilizzabili. Per i mezzi di produzione questa condizione è sempre reale, non così per la forza lavoro, che per diventare un fattore effettivamente disponibile come fonte di lavoro immediato deve disporre di mezzi di sostentamento. Poiché la forza lavoro oggettiva non si trova normalmente in questa condizione, la sua posizione contrattuale è generalmente debole. Quindi deve entrare nell’unità produttiva senza diritti sul prodotto, cioè come salariato. Anzi l’alternativa non si pone nemmeno. Se la partecipazione è data in termini di lavoro non vi è altro rapporto possibile che il lavoro salariato. Ma il motivo più vero è che il capitalista potendo comprare il lavoro vuole e impone al lavoro questo tipo di rapporto, che gli permette di dominare il lavoro a suo piacimento.
La legge del lavoro dichiara semplicemente che tutto il prodotto va al lavoro, mentre il principio di proporzionalità afferma che ogni fattore di produzione viene remunerato con un compenso costituito da due parti: reintegrazione del fattore consumato e partecipazione al plusprodotto proporzionale al contributo in lavoro. Quindi come al lavoro immediato spetta il salario e una quota del plusprodotto, così al lavoro oggettivato spetta l’ammortamento e la partecipazione. Osserviamo che l’ammortamento consta del lavoro immediato del costruttore e dei mezzi di produzione consumati per produrre i mezzi di produzione stessi, quindi include implicitamente il salario del costruttore. Sembrerebbe che quando tali principi sono applicati al capitalismo da essi consegue il diritto al profitto del capitalista. Ma qui il capitalista non è più tale in quanto il profitto costituisce la partecipazione riconosciuta al possessore del lavoro oggettivato, conseguenza che però si estende al lavoro immediato, con un analogo riconoscimento. Quindi capitalista e lavoratore riguardo al profitto sono posti sullo stesso piano. Inoltre il principio del lavoro ristretto riconosce tale diritto solo al produttore diretto, non a chi ha acquisito tale diritto acquistando il lavoro altrui. Quindi i capitalisti, non essendo produttori diretti possono tutt’al più aver diritto a ricevere la loro quota dai produttori diretti. Ne deriva una inversione dei ruoli produttivi. Non sono più i capitalisti ad appropriarsi di tutto il prodotto per poi procedere alla ripartizione, ma tale funzione spetta ai produttori diretti, che quindi avrebbero un ruolo analogo a quello che il capitalismo riserva agli azionisti. Ma ciò significa l’instaurazione dell’autogestione, cioè del socialismo. Verrebbe cioè stabilita una simmetria nei ruoli produttivi di capitale e lavoro. Questo caso ipotetico mostra chiaramente l’opposizione tra capitale e lavoro. Tale opposizione può essere risolta solo istituendo il divieto di assumere lavoro salariato
3. Le leggi economiche come convenzioni
Una notevole conseguenza della legge del lavoro è che contraddice il principio secondo il quale i mezzi di produzione non creano plusvalore. Ciò va spiegato rilevando che il diritto al plusvalore non è una legge nel senso di legge naturale, cioè non è un fatto oggettivo ma un fatto giuridico. Del resto se il lavoro oggettivato è lavoro pregresso del possessore, tale fatto si giustifica da sé in quanto esso ha lo stesso diritto del produttore immediato ad una partecipazione al plusprodotto. Diritto che, oltre il plusprodotto, comprende la reintegrazione del consumo sia dello strumento che del costruttore, cioè l’ammortamento, che include il mantenimento del costruttore, quindi la riproduzione di entrambi. Inoltre la legge del lavoro dispiegata confuta la pretesa del capitalista, oltre all’ammortamento, ad una remunerazione del capitale costante. La questione non è la remunerazione in quanto semplice reintegrazione, ma la provenienza del plusvalore. Poiché il plusvalore esiste sulla base di precise convenzioni, la questione è semplicemente chi ne abbia il diritto. La risposta più semplice e plausibile è: il lavoro. Invece nel capitalismo vi è una grave contraddizione. Sebbene le due parti della remunerazione, la reintegrazione e la partecipazione, appaiano inscindibili in quanto insieme costituiscono il prodotto, in realtà non è così: per il lavoro vi può essere reintegrazione senza partecipazione, ciò che non può accadere per il denaro.
Le considerazioni precedenti mostrano come nel capitalismo la legge del valore e quella del lavoro siano in opposizione. Il principio di proporzionalità è una sintesi che supera entrambe. Ma si è visto che ciò è possibile solo restringendo il campo d’azione della prima e ampliando quello dell’altra. Il vero superamento si ha con l’abolizione della legge del valore e la piena attuazione di quella del lavoro. Infatti il passaggio al comunismo si ha con l’abolizione di tutte le precedenti norme che collegano contributo alla produzione e diritto al prodotto e quindi con il riconoscimento del carattere sociale della produzione, per cui tale deve essere anche la ripartizione. Abolizione quindi delle norme che hanno lo scopo di “dare a ciascuno il suo”, problema che è alla base di ogni questione sociale. Cioè, il problema della proprietà.
Senza voler qui addentrarci in tale questione, ci limitiamo ad osservare che la proprietà presenta due facce. Da una parte l’istituzione di un rapporto di produzione che permetta di utilizzare al meglio le forze produttive esistenti. Dall’altra distribuire il prodotto alle classi e agli individui in modo da non creare tensioni sociali. La prima finalità si realizza enunciando principi di funzionamento dei rapporti economici che hanno la forma di leggi scientifiche oggettive. Esse sono in parte oggettive in quanto le forze produttive esistenti sono in parte determinate come forze naturali, ma sono determinate ancor più come forze sociali e lo sono storicamente in misura crescente. Ed in tale misura sono leggi sociali, quindi convenzionali. La seconda finalità viene perseguita istituendo norme giuridiche, che anch’esse hanno carattere convenzionale e lo sono doppiamente in quanto determinate dai rapporti di produzione esistenti nei luoghi della produzione. In realtà queste ultime svolgono la sola funzione di conferire valore normativo alle prime, che a loro volta giustificano le seconde, analogamente a come un presunto diritto naturale può essere posto a fondamento di un codice giuridico. In entrambi i casi si tratta di principi non solo convenzionali ma relativi ad un modo di produzione determinato, quindi non assoluti.
4. Incompatibilità delle due leggi
Il motivo essenziale dell’incompatibilità delle due leggi di appropriazione è che determinano due forme antitetiche di proprietà: la legge del valore nasce dalla proprietà privata e genera la proprietà privata, cioè scambia una proprietà particolare con un’altra proprietà particolare; la legge del lavoro nasce dalla proprietà collettiva e si risolve in proprietà collettiva. Questo carattere della legge del lavoro non appare immediatamente evidente in quanto non risulta tale il carattere comune del lavoro, quindi dei mezzi di produzione e della forza lavoro stessa.
In origine, nelle società di raccoglitori, allevatori ed agricoltori, cioè nelle società nelle quali il principale mezzo di produzione è la terra. Essa è proprietà comune per diritto di occupazione, occupazione originaria ad opera della comunità, quindi l’uso particolare di essa è libero per tutti i membri della comunità, ciascuno dei quali ha diritto al possesso della terra, ma non alla proprietà,-- che rimane alla comunità,-- nella misura in cui la lavora. Di qui la legge di appropriazione attraverso il lavoro.
Infatti la legge del lavoro è fondata sul fatto reale che il produttore è in quanto tale proprietario o almeno possessore di tutti i fattori della produzione. Cioè il produttore esiste unicamente insieme ai suoi strumenti di lavoro. Quindi questi non appaiono, se non eccezionalmente, come merci. Ciò significa che la legge del valore si applica non all’ interno della produzione ma solo all’esterno, al consumo improduttivo. I fattori della produzione sono considerati in blocco e per lo più non come merce.
Quando iniziò la decadenza della proprietà comunitaria, quindi il lungo processo di privatizzazione della terra, il rapporto di produzione che venne imposto dai proprietari a coloro che rimasero esclusi dal processo di privatizzazione, perciò costretti a lavorare la terra altrui, fu un rapporto di dominio fondato essenzialmente sul potere delle armi e della superstizione. Infatti, con la nascita della proprietà privata, il legame che univa il lavoro con la terra non venne spezzato immediatamente, ma incluso nella proprietà della terra. Terra e lavoro continuarono a lungo ad essere considerati un tutto inscindibile, come un’unica forza naturale. Tale modo di considerare il lavoro coinvolgeva anche l’artigianato, dove il maestro era considerato tutt’uno con i suoi strumenti di lavoro.
Con lo sviluppo dell’artigianato, poi dell’industria, i mezzi di produzione in quanto prodotto del lavoro, cioè in quanto mezzi di produzione sempre meno naturali, si separano dal lavoro e si pone il problema di come la proprietà di questi possa alterare la legge di appropriazione. Finché essi rimanevano facilmente reperibili, era possibile mantenere l’unità produttiva come unione di lavoro e mezzi di produzione e il problema non si poneva. Ma con lo sviluppo della tecnica la produzione dei mezzi di produzione si trasforma in una specializzazione (fabbro, vasaio, carradore, ecc.) e inoltre cresce l’entità dell’investimento, per cui diviene sempre più difficile per il produttore disporre di essi. Quindi proprietà dei mezzi di produzione e lavoro si separano. Questa circostanza, che la separazione sia determinata dallo sviluppo delle forze produttive, viene occultata dal processo di espropriazione dei produttori, forma in cui si realizza. Ma tale espropriazione ha potuto essere definitiva solo per l’impossibilità per il produttore di costruire da sé i propri strumenti di lavoro.
Ma questa circostanza determina anche un altro fatto di fondamentale importanza. Le condizioni della produzione sono un prodotto collettivo, in quanto frutto del lavoro sociale. Nella produzione mercantile semplice il lavoro sociale appare come risultato inconsapevole della concorrenza tra singoli lavori indipendenti, e non viene percepito come tale. Invece l’affermarsi del capitalismo porta con sé un nuovo livello di sviluppo della divisione del lavoro, che determina la trasformazione degli strumenti di lavoro in meccanismi, cioè in fattori della produzione che elevano straordinariamente la produttività del lavoro, ma che per essere a loro volta prodotti necessitano una grande concentrazione di risorse e della collaborazione di un gran numero di competenze. Ma produzione sociale significa, per il principio del lavoro, proprietà sociale.
Si tratta evidentemente di un ritorno ad una forma di proprietà, quella comunitaria, che in passato era prevalente, ma ad un livello di sviluppo superiore, in quanto nel frattempo le forze produttive si sono evolute. In origine tali forze erano quasi integralmente naturali, essendo costituite essenzialmente dalla produttività naturale, simboleggiata dalla terra. Ora all’epoca moderna sono al contrario quasi totalmente frutto dell’attività umana, cioè della tecnologia che utilizza i risultati ottenuti con lo sviluppo della scienza. Le forze produttive naturali spontanee (terra, sole, vento, ecc.) sono state sostituite dalla conoscenza delle leggi naturali, che è un prodotto umano e sociale. Ma il fatto più rilevante è che questa realtà è divenuta evidente per chiunque. Tale carattere del lavoro istituisce un nuovo modo di appropriazione, quindi una nuova forma di proprietà, quella della comunità di lavoro. Proprietà comune diversa da quella primitiva. Questa era fondata sulla comunanza di stirpe, ma in realtà sulla necessità di difendere la terra come risorsa dalle minacce esterne. La comunità di lavoro è invece fondata sulla divisione del lavoro, in quanto strumento produttivo dalle potenzialità illimitate, quindi una base irrinunciabile per lo sviluppo storico della società.
Pertanto la socializzazione del lavoro e dei mezzi di produzione non è una semplice aspirazione dettata da principi volontaristici, ma una necessità storica, che si riflette nell’ideologia che permette agli individui di pensare e praticare i rapporti sociali e quelli materiali in particolare. Quindi anche il marxismo è una teoria storica, nel duplice senso di teoria della storia e di teoria che ha un valore storico in quanto essa stessa determinata e inserita nel corso storico. In entrambi i sensi è tale in quanto rileva tale tendenza alla socializzazione come tendenza immanente alla storia.
Valerio Bertello
Torino, 22 ottobre 2013
|